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Il reato di falso in bilancio alla luce del DDL anticorruzione

Il reato di falso in bilancio alla luce del DDL anticorruzione

La Camera in data 21 maggio 2015 ha approvato definitivamente il ddl anticorruzione (c.d. “ddl Grasso”) reintroducendo il reato di falso in bilancio, reato che torna ad essere applicato a tutte le imprese, non solo a quelle quotate in borsa.

La fattispecie in questione, nella sua nuova formulazione, risulta comune per entrambe le tipologie d’imprese sopra citate sotto diversi punti di vista. In particolare:

1)      le figure chiamate a rispondere sono le medesime (amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori);

2)      il riferimento all’omissione di “informazioni” viene eliminato per entrambe le fattispecie e sostituito da quello all’omissione di “fatti materiali rilevanti”;

3)      è identico l’elemento oggettivo richiesto, consistente nella concreta idoneità dell’azione od omissione a condurre in errore;

4)      La procedibilità è sempre d’ufficio, salvo alcune eccezioni previste esclusivamente per le società non quotate.

5)      in entrambi i casi vengono, oltretutto, eliminate le soglie di rilevanza penale; in precedenza, al contrario, la punibilità era esclusa nel caso in cui l’azione o l’omissione non avesse comportato una variazione del risultato economico superiore al 5% del risultato di esercizio ovvero dell’1% del patrimonio netto nonché, nel caso di valutazioni estimative, se quest’ultime non fossero differite di oltre il 10% rispetto a quelle corrette.

Proprio quest’ultimo punto, unitamente all’introduzione del citato elemento oggettivo, risulta di fondamentale rilevanza, in quanto restituisce un maggior margine di discrezionalità al giudice, la cui valutazione non sarà più delimitata, come in passato, da un dato fisso e quantitativo.

Venendo ora agli interventi specifici aventi ad oggetto le imprese quotate (art. 2622 c.c.), occorre innanzitutto evidenziare un aggravio delle pene previste (reclusione da 3 a 8 anni – in precedenza era da 6 mesi a 3 anni), nonché l’equiparazione alle medesime delle:

a)      società emittenti strumenti finanziari per i quali è stata presentata una richiesta di ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell’Unione europea;

b)      società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un sistema multilaterale di negoziazione italiano;

c)      società che controllano società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell’Unione europea;

d)      società che fanno appello al pubblico risparmio o che comunque lo gestiscono.

Per quanto attiene, al contrario, la situazione relativa alle imprese non quotate (art. 2621 c.c.) occorre, anche in questo caso, rilevare un aumento della pena base prevista che ora, diversamente da quanto precedentemente indicato (l’arresto fino a 2 anni), diviene la reclusione da 1 e 5 anni.

Proprio a tal riguardo, se siffatta previsione ha reso, da un lato, impossibile l’utilizzo delle intercettazioni, dall’altro consente l’applicazione della disposizione di cui all’art. 131 –bis c.p. che esclude la punibilità del reato in caso di particolare tenuità del fatto (disposizione espressamente richiamata dall’art. 2621 – ter – non punibilità per particolare tenuità).

In aggiunta a quanto sopra, viene inoltre introdotto l’art. 2621-bis c.c. il quale prevede una riduzione della pena da 6 mesi a 3 anni ogniqualvolta i fatti di cui all’art. 2621 c.c. siano di “lieve entità” con riferimento alla natura e alle dimensioni della società e alle modalità ed effetti della condotta. Il secondo comma del medesimo articolo prevede, inoltre, che se il reato è stato commesso sui conti di una società che non supera i limiti indicati dall’art. 1, comma 2, RD 267/1942 (legge fallimentare) la pena da applicare è sempre quella ridotta per i fatti di lieve entità e il reato in questo caso è perseguibile a querela.

Alla luce di quanto sopra, nel caso in cui, nelle comunicazioni sociali relative a società non quotate, vengano accertate condotte concretamente idonee a indurre in errore, potranno pertanto verificarsi le seguenti tre ipotesi:

–          applicazione della pena da 1 a 5 anni (art. 2621 c.c.);

–          applicazione della pena da 6 mesi a 3 anni in caso di fatti di lieve entità (art. 2621 – bis c.c.);

–          non punibilità in caso di particolare tenuità del fatto sulla base di valutazioni del giudice che tengano prevalentemente in considerazione l’entità del danno cagionato (art. 2621 ter c.c.).

Sulle modifiche apportate alla disciplina del falso in bilanciosi segnala altresì l’inasprimento per le imprese (sia per le quotate che per le non quotate) delle sanzioni pecuniarie introdotte dal D.lgs. n. 231/2001, talché le pene a carico delle società divengono ora le seguenti:

–          da 200 a 400 quote nel caso di falso in bilancio di cui all’art. 2621 c.c.;

–          da 100 a 200 quote nel caso di falso in bilancio di cui all’art. 2621 – bis c.c.;

–          da 400 a 600 quote nel caso di falso in bilancio di cui all’art. 2622 c.c..

In tal caso l’organo giurisdizionale determinerà il valore monetario della singola quota (da un minimo di 258 euro ad un massimo di 1549 euro) sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali della persona giuridica in questione.

  • Federico Pellizzari
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