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La libertà di stabilimento al test dei criteri di collegamento

La libertà di stabilimento al test dei criteri di collegamento
La disciplina civilistica contenuta nell’art. 25 della L. 218/95, secondo cui le società estere sono disciplinate dalla legge italiana se hanno in Italia l’oggetto principale dell’attività, viola il principio di libertà di stabilimento previsto dall’art. 49 del TFUE. E’ questa la decisione adottata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”), con sentenza dello scorso 25 aprile 2024 (C – 276/2022)

Il caso portato all’attenzione dei giudici europei riguardava una società di gestione immobiliare italiana che deteneva come unico asset un castello nei dintorni di Roma. Tale società dapprima aveva trasferito la sede legale in Lussemburgo e successivamente si era trasformata in società di diritto lussemburghese, pur continuando a svolgere come unica attività quella di gestione dell’unico immobile sito in Italia.

Proprio la trasformazione in società di diritto lussemburghese ha determinato un dubbio interpretativo in merito alla corretta individuazione della legge applicabile alla stessa. Ai sensi dell’art. 25 della citata L. 218/95, infatti, alle società estere “Si applica, tuttavia, la legge italiana se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti”. L’art. 2507 cod. civ., di contro, dispone che l’interpretazione ed applicazione delle disposizioni contenute nel capo XI relativo alle società costituite all’estero “è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee”, intendendosi per tali non solamente i trattati ma anche la legislazione derivata e la giurisprudenza comunitaria.

Al contempo, l’art. 49 TFUE, nel sancire il principio di libertà di stabilimento all’interno dell’Unione Europea, lo estende non soltanto alla costituzione/stabilimento delle società ma anche alla gestione di imprese”.

La CGUE, dunque, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha affermato che una normativa come quella italiana che, come detto, prevede l’applicazione del proprio diritto nazionale agli atti di gestione di una società stabilita in un altro Stato membro in ragione del fatto che tale società svolge la parte principale delle sue attività in Italia ( art. 25 della L.218/95) può rendere meno attrattivo l’esercizio della libertà di stabilimento in detto altro Stato e costituisce, di conseguenza, un ostacolo all’esercizio della libertà di stabilimento.

Se sul fronte civilistico, quindi, una società deve essere disciplinata dalla legge dello Stato in cui è costituita, indipendentemente dalla presenza di eventuali elementi di collegamento in Italia quali, come nel caso di specie, l’oggetto principale dell’attività, discorso diverso allorquando bisogna analizzare gli effetti tributari di tali spostamenti all’estero.

Una pronuncia come quella della CGUE, che da piena rilevanza dal punto di vista civilistico e societario alla legge dello Stato di stabilimento sulla base di specifici criteri di collegamento con quest’ultimo (la sede sociale, la sede dell’amministrazione centrale o del centro di attività principale), non pone tuttavia al riparo la società dall’esercizio della potestà impositiva dell’Italia, quale Stato di provenienza.

Nel sistema tributario italiano, infatti, la residenza fiscale di una società è determinata sulla base di una serie ben precisa di criteri di collegamento con il nostro Paese, indipendentemente dal luogo di costituzione della stessa.

In particolare, secondo l’articolo 73, co. 3, Tuir, come riformulato per effetto della riforma fiscale n. 209/2023 ed in vigore dal 1° gennaio 2024, anche una società formalmente costituita all’estero può essere considerata fiscalmente residente in Italia se per la maggior parte del periodo d’imposta ha nel territorio dello Stato (i) la sede legale; (ii) la sede di direzione effettiva; (iii) la gestione ordinaria in via principale.

 

Tralasciando il criterio della sede legale, ricordiamo che la sede di direzione effettiva di una società coincide con il luogo in cui si svolge “la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso”. Tale criterio ricorda il “place of effective management” (“POEM”), contemplato nella maggior parte delle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia, che, nel Commentario al Modello OCSE, è definito come il luogo in cui vengono assunte le più importanti decisioni strategiche e commerciali relative alla gestione della società nel suo complesso.

Per gestione ordinaria in via principale, invece, si intende “il continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso”. La gestione ordinaria, quindi, per essere rilevante ai fini del radicamento della residenza deve essere connotata da continuità e coordinamento e da una natura globale, intesa nel senso che gli atti di gestione corrente devono riferirsi alla società nella sua interezza e non, ad esempio, ad un solo ramo d’azienda o funzione specifica.

I suddetti criteri di collegamento sono tra loro alternativi e, al pari della previgente formulazione dell’art. 73, è sufficiente integrare uno solo degli stessi perché la società o l’ente estero possa essere considerato residente ai fini fiscali in Italia ed essere ivi assoggettato ad imposizione.

Alla luce di tutto quanto sopra, è di assoluta evidenza che nei casi di riorganizzazione o semplice riallocazione all’estero di società ed enti, è di fondamentale importanza procedere ad un’analisi complessiva della fattispecie. Risulta, infatti, di notevole rilevanza approfondire sin dalle primissime fasi non soltanto gli aspetti di natura meramente legale, siano essi civilistici, tributari o di altra natura, ma anche avere riguardo agli aspetti operativi di gestione ed organizzazione della società o dell’ente.

  • Domenico Sannicandro
  • Gise Genco
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