La vicenda posta al vaglio degli Ermellini riguarda la contestata esistenza in Italia di una stabile organizzazione materiale ed occulta di una società di diritto egiziano (i.e. casa madre) attiva nella costruzione e vendita di immobili turistici a Sharm el Sheik. Secondo l’Agenzia delle Entrate l’esistenza della stabile organizzazione occulta è da ravvisarsi nella struttura che, per conto della società egiziana, gestiva in Italia l’attività di promozione e di vendita degli immobili.
I temi trattati nell’ordinanza, su cui si vuole portare l’attenzione, sono due, e non riguardano tanto i tratti caratterizzanti, nel caso di specie, l’esistenza della stabile organizzazione, su cui la Suprema Corte non si sofferma più di tanto ritenendo sul punto ben argomentata la sentenza impugnata, quanto piuttosto la corretta determinazione del reddito imponibile della stabile organizzazione e la corretta individuazione dello Stato che è dotato della potestà impositiva sul reddito da questa prodotto.
Sul primo aspetto, e dunque sulla determinazione del reddito imponibile, la Suprema Corte smentisce l’equazione “fatturato=reddito” e, richiamando la giurisprudenza e la prassi consolidate in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa, ammette, anche con riferimento alla stabile organizzazione, l’applicazione della regola per cui “il fisco deve ricostruire il reddito, tenendo conto anche delle componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero, in difetto, determinandole induttivamente e/o presuntivamente, al fine di evitare che, in contrasto con il principio della capacità contributiva, venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anziché quello netto”.
Quanto, invece, al secondo aspetto, ai fini dell’individuazione dello Stato avente potestà impositiva sui redditi realizzati tramite la compravendita di immobili (ubicati in Egitto) la cui attività di commercializzazione è oggetto della stabile organizzazione (ubicata in Italia), la Corte, dando atto che la soluzione della questione necessita di un’esegesi ermeneutica degli artt. 6 (Redditi “immobiliari”), 7 (Utili di impresa) e 13 (Utili da capitale) della Convenzione Italia-Egitto contro le doppie imposizioni, conclude affermando la priorità dell’art. 7 della citata Convenzione sulle altre norme citate, in ragione della prevalenza dell’aspetto organizzativo, proprio dell’impresa, rispetto ai singoli beni. La conseguenza della priorità riconosciuta all’art. 7 è che il potere impositivo va attribuito allo Stato in cui è ubicata la stabile organizzazione, dunque l’Italia, “guardando al luogo ove insiste l’organizzazione di beni e persone organizzati per l’esercizio dell’impresa, ritenendo lì generata la ricchezza, pur se derivante da elaborazioni, trasporti e trasformazioni di merci partitamente avvenuti in più luoghi”. Nel fornire la qui sintetizzata soluzione, la Corte risponde anche alle doglianze del contribuente circa la doppia imposizione subita in conseguenza della tassazione applicata dall’Egitto sui medesimi redditi, che risulterebbe in conformità all’art. 6 della Convenzione. La Cassazione (seppur con un riferimento al principio di worldwide taxation che appare improprio) rammenta che la doppia imposizione potrebbe essere evitata attraverso il ricorso al credito d’imposta di cui all’art. 165 TUIR, ma sottolinea che nel caso concreto questo rimedio è precluso dalla duplice circostanza dell’omessa dichiarazione dei redditi e dalla mancata prova dell’imposta effettivamente subita all’estero.