In estrema sintesi, l’oggetto dell’investimento in Cir sono i «titoli di Stato e similari emessi, al fine del consolidamento, miglioramento e sviluppo delle infrastrutture» con «vincolo di acquisto all’emissione e possesso fino a scadenza». E le somme investibili in Cir, fino a 3mila euro annui» non possono eccedere i «90mila euro complessivi». A fronte di questo, il regime fiscale prevede la «non imponibilità dei rendimenti», la «deduzione del 23% sul massimo di 3mila euro annui che matura nell’anno dell’acquisto dei titoli» e l’«irrilevanza Irpef delle eventuali plusvalenze e minusvalenze» nonché «l’inapplicabilità dell’imposta di donazione e successione a condizione che le somme non vengano distratte per almeno 18 mesi».
Le incognite però non mancano, a partire dall’effettiva capacità di attirare l’attenzione dei risparmiatori italiani in un periodo turbolento per i BTp. Ma ci sono anche spazi di manovra: «Negli ultimi anni la quota di obbligazioni del Tesoro direttamente in mano alle famiglie italiane si è progressivamente ridotta fino a scendere al 5%», ricorda Enrico Vaccari, responsabile clientela istituzionale di Consultivest, notando anche come in questo campo l’Italia sia rimasta indietro non solo nei confronti di Paesi come Giappone e Stati Uniti, ma anche di gran parte dell’Europa.
L’incentivo fiscale che ha dimostrato di funzionare in modo egregio come leva nel caso dei Pir rischia però di essere meno potente con i BTp, già avvantaggiati da un’aliquota più favorevole sui proventi (12,5%). «Eliminarla del tutto non sarà forse sufficiente», sottolinea Daniele Trivi dello studio Belluzzo International Partners, che nutre inoltre dubbi riguardo la deduzione del 23% sulle somme investite. L’agevolazione «potrebbe infatti incorrere nell’opposizione dell’Unione europea». Maggior interesse, secondo l’esperto, potrebbe suscitare il carattere dell’impignorabilità dei Cir perché «gli italiani potrebbero essere sensibili alla possibilità di mettere i risparmi al riparo dei creditori».
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