Il ragionamento dell’Agenzia muove da un principio di coerenza: l’esenzione introdotta dal decreto “internazionalizzazione” del 2015, recepita nell’art. 168-ter, è strutturale e definitiva; essa comporta che i redditi della branch estera non siano più inclusi nella determinazione della base imponibile italiana, con la correlata inapplicabilità della disciplina delle Controlled Foreign Companies e con il meccanismo di “recapture” delle perdite solo ai fini futuri. Viene quindi ribadito che l’uscita dal territorio fiscale nazionale non può far riemergere un imponibile che l’ordinamento ha già rinunciato a tassare.
Alla luce di questa premessa, la risposta rilegge l’art. 166: l’applicazione dell’exit tax rimane integrale per i cespiti rimasti nella sfera imponibile italiana — immobilizzazioni materiali e immateriali, partecipazioni, avviamento — ma non può estendersi a quelli che la legge ha definitivamente allocato all’estero per effetto della BEX. L’Agenzia richiama il requisito, dettato dallo stesso art. 166, secondo cui le plusvalenze “si considerano realizzate” solo se riguardano componenti che lasciano il territorio dell’imposizione; una volta cristallizzato il disallineamento con la branch exemption, tali componenti risultano già fuori dal “territorio” in senso fiscale e dunque non realizzano alcuna plusvalenza latente tassabile.
La risposta ad interpello n. 185/2025 segna un punto fermo nell’applicazione coordinata degli articoli 166 e 168-ter del TUIR, confermando che la branch exemption non è una semplice sospensione d’imposta ma un definitivo spostamento di potestà impositiva: un elemento che gli operatori dovranno valutare attentamente non solo nei programmi di trasferimento di residenza, ma anche, più in generale, nell’ambito della strutturazione di progetti di internazionalizzazione che possano comportare la scelta di società controllate estere o l’instaurazione di permanent establishment con o senza branch exemption.