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La Corte di Giustizia fissa alcuni principi cardine in merito al regime fiscale comunitario di dividendi ed interessi e sulla normativa CFC

La Corte di Giustizia fissa alcuni principi cardine in merito al regime fiscale comunitario di dividendi ed interessi e sulla normativa CFC

Il 26 febbraio u.s. la Corte di Giustizia UE ha emanato diverse sentenze che fissano alcuni principi utili per l’interpretazione e l’applicazione delle direttive comunitarie in materia fiscale e che non mancheranno di avere importanti riflessi anche sulle normative nazionali degli Stati Membri.

Di seguito si descrivono in sintesi le principali disposizioni contenute nelle suddette sentenze, analizzandole separatamente per argomento trattato.

I. Corte di Giustizia 26.2.2019 n.C-116/16 e C-117/16 – Cause relative alla distribuzione di dividendi.

Caso di specie:

Le cause riunite avevano ad oggetto la distribuzione di dividendi da parte di una società danese a società situate all’interno dell’Unione Europea (Lussemburgo e Cipro).

Secondo il diritto danese, ai dividendi distribuiti doveva essere applicata una ritenuta alla fonte. Le società destinatarie dei dividendi chiedevano l’applicazione dell’esenzione della ritenuta ai sensi della direttiva 90/435/CEE (direttiva madre-figlia).

Tale richiesta veniva negata dall’Amministrazione Finanziaria danese poiché la struttura societaria organizzata su più livelli, comprendenti soggetti residenti all’interno della UE e residenti al di fuori della UE (Stati Uniti), non permetteva di identificare il reale beneficiario effettivo dei dividendi e poteva determinare un abuso della normativa comunitaria (abuso del beneficio dell’esenzione della ritenuta alla fonte).

Questioni su cui si è espressa la Corte di Giustizia:

  1. La repressione delle frodi e degli abusi contemplata dalla direttiva 90/435/CEE, presuppone l’esistenza di una disposizione nazionale o convenzionale anti-abuso?
  2. In cosa consiste l’abuso?
  3. In cosa consiste la prova di una pratica abusiva? L’onere della prova?
  4. Si può configurare abuso nel caso in cui i dividendi percepiti da società interposte abbiano come beneficiario effettivo una società con sede in uno Stato terzo con cui lo Stato membro d’origine abbia stipulato una convenzione contro le doppie imposizioni, per effetto della quale i dividendi non sarebbero soggetti ad alcuna ritenuta nel caso in cui fossero direttamente distribuiti alla società con sede nello Stato terzo?
  5. È possibile invocare le libertà fondamentali sancite dal TFUE?

Risposte della Corte di Giustizia:

  1. Il principio generale anti-abuso, immanente nel diritto comunitario, trova applicazione indipendentemente dalla presenza di una disposizione nazionale o convenzionale (par. 95).
  2. Costituisce abuso l’esistenza di una costruzione artificiosa ossia “(…) un gruppo di società costituito non per motivi che riflettono la realtà economica bensì caratterizzato da una struttura puramente formale ed avente quale obiettivo principale, ovvero uno degli obiettivi principali, il conseguimento di un vantaggio fiscale in contrasto con l’oggetto o la ratio della normativa tributaria applicabile. Ciò si verifica, in particolare, quando, grazie ad un’entità interposta inserita all’interno della struttura del gruppo tra la società erogatrice dei dividendi e la società del gruppo che ne è la beneficiaria effettiva, viene evitato il versamento di imposte sui dividendi.” (par. 100).

Oltre tale definizione, la Corte ha, altresì, fornito degli indizi che potrebbero condurre all’esistenza di una costruzione abusiva:

  • la circostanza per la quale i dividendi vengano trasferiti integralmente o quasi, in un lasso di tempo molto breve, ad un’altra società priva dei requisiti previsti dalla direttiva madre-figlia (par. 101);
  • un gruppo organizzato in modo che di fatto la società percettrice dei dividendi sia una mera società interposta, che realizza un imponibile insignificante, creata al solo fine di rispettare “formalmente” i requisiti per l’esenzione, a vantaggio del soggetto beneficiario effettivo (par. 103);
  • l’assenza nelle società interposte del potere di disporre economicamente dei dividendi percepiti in virtù di obblighi contrattuali, oppure per il mero fatto che la società non disponga del diritto di utilizzare i dividendi e goderne (par. 105).
  1. La prova di una pratica abusiva richiede la dimostrazione di (par. 114):
  • circostanze oggettive: dalle quali risulti che nonostante il rispetto formale delle condizioni richieste dalla direttiva madre-figlia, in realtà l’obiettivo di tale normativa (ossia agevolare raggruppamenti di società all’interno dell’UE, par. 78) non è stato perseguito;
  • elemento soggettivo: consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa UE, attraverso la creazione di strutture realizzate in modo artificioso al fine di rispettare le condizioni necessarie.

L’onere della prova grava sull’Amministrazione Finanziaria. Essa, oltre a dimostrare gli elementi costituivi della pratica abusiva, deve dimostrare che il preteso beneficiario effettivo è in realtà una società interposta tramite la quale è stato realizzato l’abuso. L’Amministrazione Finanziaria non è tenuta all’individuazione del reale beneficiario effettivo (par. 117 e 118).

  1. È irrilevante ai fini dell’analisi di una pratica abusiva che vi siano convenzioni contro le doppie imposizioni grazie alle quali all’interno della struttura del gruppo vi siano soggetti che possono beneficiare dell’esenzione delle ritenute (par. 107).
  2. Nel caso in cui sia accertata l’esistenza di una pratica abusiva, non possono essere invocate le libertà fondamentali di cui al TFUE al fine di mettere in discussione la normativa interna di uno Stato Membro che prevede l’applicazione di ritenute sui dividendi (par. 123).

 

II. Corte di Giustizia 26.2.2019 n. C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C299/16 – Cause relative al pagamento di interessi.

Caso di specie:

Le sentenze aventi ad oggetto quattro cause riunite vertevano sul pagamento di interessi da parte di una società danese al proprio socio finanziatore residente in un altro Stato membro UE posto all’interno di una complessa struttura societaria. I soci finanziatori chiedevano che non venisse applicata la ritenuta da parte delle società che corrispondevano gli interessi ai sensi della direttiva 2003/49/CE (direttiva interessi e royalties).

Questioni su cui si è espressa la Corte di Giustizia:

  1. Cosa si intende per beneficiario effettivo ai sensi della direttiva?
  2. Cosa si intende per abuso?
  3. In cosa consiste la prova di una pratica abusiva? L’onere della prova?
  4. È possibile invocare le libertà fondamentali sancite dal TFUE?
  5. Quando una società può definirsi “Società di uno Stato Membro” per l’applicazione della direttiva.

Risposte della Corte di Giustizia:

  1. Per beneficiario effettivo si deve intendere quel soggetto che “benefici effettivamente, sotto il profilo economico, degli interessi percepiti e disponga, pertanto, del potere di deciderne liberamente la destinazione” (par. 122) ([1]).
  2. Sulla definizione di abuso la Corte di Giustizia si è espressa negli stessi termini di cui alla sentenza esposta precedentemente nelle cause C-116/16 e C-117/16, sui dividendi (par. 127).
  3. Anche con riferimento alla prova della pratica abusiva e all’onere della prova la Corte si è espressa conformemente alle sentenze sui dividendi (par. 139 e 145).
  4. Conformemente a quanto sancito nelle suesposte sentenze sui dividendi la Corte ha affermato che le libertà fondamentali previste dal TFUE non possono essere invocate nel caso in cui sia accertata una pratica abusiva (par.180).
  5. Per società di uno Stato Membro deve intendersi una società che (i) rivesta una delle forme elencate nella Direttiva, (ii) che sia fiscalmente residente in uno Stato Membro e (iii) che sia soggetta ad una imposta elencata nella Direttiva senza beneficiare di esenzioni. In merito al terzo punto la Corte precisa che, qualora la società percipiente sia soggetta in astratto ad una imposta sul reddito elencata nella Direttiva ma goda nello specifico di una esenzione sugli interessi (come nel caso in esame trattandosi di SICAR lussemburghese), tale condizione non sarebbe più rispettata e di conseguenza l’esenzione da ritenuta alla fonte non potrebbe più essere accordata (par. 147 – 150 – 151).

 

III. Corte di Giustizia 26.2.2019 n. C-135/2017 – Causa relativa alla normativa CFC.

Caso di specie:

Il caso di specie contempla una società di diritto tedesco che deteneva una partecipazione pari al 30% in una società svizzera la quale, a sua volta, aveva stipulato un contratto di acquisizione di crediti con una società residente in Germania. Nella struttura in questione poiché la società Svizzera era controllata dalla società tedesca, i redditi da questa realizzata dovevano essere attratti a tassazione in capo alla società tedesca.

Questioni su cui si è espressa la Corte di Giustizia:

  1. L’articolo 63 del TFUE (libertà di circolazione dei capitali) può essere inibito da una normativa interna (come quella sulle CFC)?
  2. Gli stati membri hanno l’obbligo di porre il soggetto passivo nelle condizioni di poter fornire una prova contraria a fronte di una presunzione come quella contenuta nella normativa CFC?

Risposte della Corte di Giustizia:

  1. Una misura nazionale che limita la libera circolazione dei capitali può essere giustificata dalla necessità di prevenire l’evasione e l’elusione fiscale se concerne specificamente costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica, create con lo scopo di eludere l’imposta normalmente dovuta sugli utili generati da attività svolte nel territorio dello stato membro interessato (par. 73).

In tale ottica, una norma nazionale come quella sulle CFC non è in contrasto con l’articolo 63 del TFUE in quanto rispetta un “motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare una restrizione alla libera circolazione dei capitali (par. 74).

  1. Nel caso in cui una norma nazionale come quella sulle CFC sia formulata in modo da prevedere soltanto una presunzione assoluta, senza la possibilità accordata al contribuente di fornire la prova contraria, la Corte ritiene che tale norma sia sproporzionata rispetto all’obiettivo di prevenire l’elusione fiscale. Essa deve necessariamente dare la possibilità al soggetto passivo di fornire la prova contraria. Tale obbligo, tuttavia sussiste soltanto nel caso in cui i soggetti passivi siano residenti negli Stati membri della UE (par. da 85 a 89).

Nell’ipotesi in cui, invece, un soggetto passivo detenga una partecipazione in un soggetto residente o localizzato in uno Stato terzo, l’obbligo gravante sugli Stati membri di dare a questo la possibilità di fornire una prova contraria è subordinato alla “disponibilità di misure amministrative e regolamentari che consentano se del caso, un controllo della veridicità di siffatti elementi” (par. 91). È altresì necessario verificare “se sussistano degli obblighi convenzionali che istituiscano un quadro giuridico di cooperazione e meccanismi di scambio di informazioni tra le autorità nazionali interessate che siano effettivamente tali da consentire alle autorità tributarie di verificare la veridicità delle informazioni (…)” (par. 94).

 

di Stefano Serbini

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